Sunday, December 8, 2013

Markelian Kapedani Trio |. Balkan Bop

Al primo ascolto di Balkan Bop, ho avuto un trasalimento. Incredibile! Com’è possibile che, da una delle nazioni più chiuse e impenetrabili d’Europa, possa aver visto la luce una delle opere più aperte, universali e musicalmente trasversali che mi sia capitato di ascoltare? Già, perché Markelian Kapedani, pianista, compositore, arrangiatore e autore dell’album, è originario di Scutari, città del nord dell’Albania. L’approfondimento della biografia ci svela un universo. Il Capitano – Kapedani in albanese – proviene da un tessuto familiare e sociale tutt’altro che depresso e incolto. Intanto discende dalla famiglia nobile dei Gjomarkai, i quali, da signori di Mirdite, sono passati alla storia come i più irriducibili oppositori della dominazione ottomana, ottenendo addirittura uno stato di semi indipendenza e libertà di professare la religione cattolica. Ma, soprattutto, è figlio d’arte, essendo stato il padre Gjon un pianista, compositore e direttore d’orchestra tra i più importanti del paese. In questo modo il figlio ha avuto la possibilità di intraprendere, fin dall’età di quattro anni, il suo percorso di formazione pianistica, culminato con un diploma in composizione, che gli ha spalancato le porte di radio e TV nazionali, oltre a proiettarlo nei circuiti internazionali della musica.

Ho avuto l’opportunità casuale di conoscere Kapedani - non personalmente purtroppo – a una edizione passata di Sintonie, a Lanciano. Sono stato l’intera mattina a chiedermi chi fosse questo giovane uomo, esile, austero, con barba e capelli scuri lunghissimi, che stazionava dietro lo stand della Red Records di Sergio Veschi. Il quale, a un certo punto, ha iniziato a richiamare visitatori e addetti ai lavori nell’ampio auditorium dove proprio l’uomo con il viso da cavaliere medievale era in procinto di esibirsi in un concerto di piano solo. La performance è stata veramente superlativa e  ha regalato al pubblico presente un artista in congiunzione virale con la tastiera, un po’ alla Jarrett, ma con una capacità di proporre un repertorio molto innovativo e intrigante, dove le classiche pentatoniche si rarefanno per lasciare spazio a ritmiche e metriche composite e desuete. Alla presentazione di un blues in 7/8 mi sono precipitato in prima fila per cercare di capire meglio lo stile compositivo, ma confesso di aver fatto fatica, per mie lacune ovviamente. Il fiuto di Sergio Veschi per il talento è andato a segno ancora una volta: la Red Records ha curato la produzione di due lavori di Kapedani, Balkan Piano e Balkan Bop. Entrambi i dischi si collocano nel segno della continuità concettuale, con la differenza che il primo è un lavoro solista, mentre l’altro è concepito in trio, con Asaf Sirkis alla batteria e Yuri Goloubev al contrabbasso.

Più volte ho scritto intorno alla vitalità e modernità del jazz europeo, insieme alla sua indiscutibile capacità di andare oltre le definizioni e le classificazioni di genere. Nel nostro caso viene compiuto un ulteriore progresso. Kapedani si è formato fondamentalmente sulla musica classica, ma, al di là di tutte le forme diapartheid nazionalistico, tiene ben salde le radici nella tradizione folklorica albanese, la quale non è altro che il riflesso di tutte le incursioni che questa terra ha subito nel corso della storia. Contestualmente esprime tutta la sua indole culturalmente migrante e l’irresistibile attrazione per le musiche provenienti da svariate aree del mondo, realmente lontane dalla tradizione musicale europea, ma indizi incontrovertibili dei fenomeni di globalizzazione e integrazione etnico musicologica in corso nel pianeta. Per Markelian l’incontro dei popoli equivale a crescita sociale, ed è questo il concetto che vuole esprimere attraverso la sua arte. Le periferie, i confini, gli estremi, i margini, diventano centro espressivo: dal Flamenco spagnolo alla musica araba, dalla Bulgaria attraverso la Grecia, la Turchia e l’Egitto, fino alle Antille e Cuba. Ogni forma musicale appartenente alle tradizioni geografiche citate assurge a sintesi musicale pulsante. Esistono da quando esiste l’umanità, sono protagoniste. Ovviamente gli studi classici lasciano una forte impronta, mentre il jazz diventa strumento di servizio, attraverso il quale Kapedani sincretizza tutte le proprie visioni musicali. Nulla a che vedere con il jazz etereo dell’Europa del nord e dell’est, in favore di una costruzione più affine a una impostazione orchestrale, sostenuta da una ritmica energica e vulcanica. Goloubev e Sirkis, pur rigorosi nel rispetto delle forme, sono totalmente in sintonia con le incursioni battenti ed emotive del leader; in alcuni passaggi sembra di ascoltare una sezione ritmica funky; l’intensità rasenta l’impulsivo, ma non ha mai cedimenti di tempo. Questa pienezza di suoni fa apparire questo trio come un ensemble più grande, che macina idee al ritmo incalzante di una fanfara balcanica, à la Bregovic, tanto per capirci. Il disco vive sull’alternanza di colto e popolare, energia e lirismo, nobiltà e tradizione, estetica, stile e totale controllo della tastiera, sulla quale l’artista riversa tutta la sua energica passione e la fluida vena compositiva, muovendosi tra intonazioni arabo-balcaniche e strutture armoniche jazz.

Già dal primo brano, Balkan Bop, ci viene servito un menù poliritmico in ebollizione, miscelato con venature bop e swing ed elementi folklorici arabi e albanesi. Prevale il ritmo in 2/4 denominato Malfuf, che, in genere, apre e chiude alcune danze orientali femminili. Solenne è il finale malinconico in stile Jare, che deriva dalle ballate meste tipiche della città di Scutari. Blue Penthaton si dipana su una classica struttura pentatonica di blues in 4/4, con innesti di Karsilamas, una danza originaria del Nord-Ovest dell’Asia Minore, esportata in Grecia e Turchia, che invece è caratterizzata da una metrica in 9/8, mentre il ballo è composto da quattro piccoli passi con intervalli di durata rispettivamente 2-2-2-3. Semplicemente straordinari il basso, che vibra con una rapidità inafferrabile, e la batteria che è dappertutto. Con Nashke inizia la festa. Il brano, il più breve della lista, è molto frizzante. Vi echeggiano, su una base jazz vagamente nordica, alcune inflessioni rapsodiche tzigane. Cous Cous in Tunisia, parafrasi del celebreA Night in Tunisia di Gillespie, segue un nuovo cambio di ritmo, tra Africa e Cuba, nella famosa clave 2/3, che è l’architrave della salsa e di tante altre forme di musica popolare come la rumba, il son, il mambo e la timba. Bop Dropssancisce il ritorno alla tradizione jazz. L’andamento è molto swingante e intride il brano di un brio incontenibile. La ballata Remember my Dad è un ricordo di Gjon Kapedani, in un clima di sofferenza interiore; un lamento riversato sui tasti, che tintinnano a imitare le lacrime che scorrono sul viso. One for Bud, interpretato alla Jarrett, con la voce intenta a doppiare le note del piano, è un omaggio a Bud Powell, e  è l’unico brano autenticamente bop dell’album. Oriental Travellersarebbe la colonna sonora ideale di un viaggio immaginario in Oriente, al ritmo diSayyiddi, ovvero ritmo signorile, una delle strutture musicali più popolari nelle zone dell’Asia mediorientale, presente anche nelle danze nordafricane e balcaniche. La formula è un classico 4/4, che può mutare in ulteriori metriche popolari, come lo Zebeticos greco, il Kalamantiano in 7/8 e le citate Karsilamasin 9/8, aggiungendo semplicemente porzioni temporali che modificano il senso della pulsazione. Quickly è un brano strutturato sull’Anatole, appellativo che identifica il rhythm-changes di Gershwiniana memoria, composto su 32 battute, molto frequente nel jazz e clamorosamente presente negli assolo di Charlie Parker. La lista delle tracce si chiude con Davaj, degna passerella finale per un trio delle meraviglie, intento a godersi una meritata standing ovation su temi estratti dalla tradizione russa.

Markelian Kapedani compie un viaggio epico alla ricerca dello spirito armonico del suono del mondo. Il mondo delle moltitudini razziali e dell’arte dei suoni stessi, che diventa microscopico nelle sue talentuose mani e nelle composizioni che, pur attraverso una scrittura colta e aristocratica, ha trovato la clave di un linguaggio espressivo realmente popolare, così forte e potente da annichilire qualsiasi maldestro tentativo di confinamento oppressivo.

“Oh Capitano! Mio Capitano! Il tremendo viaggio è compiuto…”
Walt Whitman